
Adrian Tranquilli
Adrian Tranquilli
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La natura che anima e nutre il lavoro di Adrian Tranquilli, sempre attento a coniugare il mentale al manuale e il manuale al materiale in un rimbalzo trinitario che non lascia spazio a dilazione o a distrazione, traccia un segno di interesse processuale tra l’arte e la riflessione sull’arte, tra il fare e il ragionare, tra il kunstvoll arbeiten e il Denken, il bildhafte Denken più esattamente. «Ho studiato con Ida Magli antropologia culturale, una disciplina da sempre legata al mio lavoro. I miei genitori sono artigiani e quindi ho sempre avuto una consuetudine con le attività incentrate sulla creatività e sulla manualità, che credo mi abbiano spinto a sperimentare qualcosa», rivela l’artista in un’intervista rilasciata nel 1999. «Per me fare arte è sempre legato all’uso delle mani, ad una estrema fisicità anche quando uso il computer, si tratta sempre di una manipolazione della materia».
Giocata sul fronte bicipite della teoria e della pratica, su relazioni transitive fra livelli gemelli, gerarchicamente organizzati mediante qualità dedaliche (il δαιδάλλειν appunto) che assorbono con indistinta modalità tanto da assunti speculativi – l’antropologia e la sociologia, la storia e la geografia, il cinema e la fantascienza, il rotocalco ricercato e la mitologia – quanto dalle radici grammaticali dell’arte e del discorso tecnico che ne permea la storia, la partita organizzata da Tranquilli sin dal suo ingresso nello spazio imperfetto dell’arte, è impregnata di espedienti che si basano sull’equilibrio tra lo studio dei fatti e l’elaborazione delle idee, tra il tessuto intellettuale e l’organicità dei materiali adottati come veicolo, come protesi, come puro e semplice conduttore per la messa in forma del pensiero.
Nella sua prima mostra allo Studio Aperto di Roma l’artista si pone al centro dell’attenzione con una serie di lavori – tra questi sfilano Svelata (1992), Adora (1993), Credo (1993), Genuflessa (1993), Resta (1993), Amore (1994) e Come te stesso (1994) – che dimostrano la capacità di assimilazione di alcuni maestri (Yves Kline, Toti Scialoja, Nunzio, Louise Bourgeois, Pino Pascali o Katharina Fritsch: tutti ricercati per le loro qualità, per il loro evadere la regola del momento) e nel contempo il desiderio di varcare la soglia dell’arte tout court per spingersi in una zona elastica, per guardare con attenzione lo scoglio accecante del vuoto, per andare sempre più a fondo, nella conoscenza di una realtà mobile e cangiante. «Nel suo processo creativo Adrian scansa le conclusioni innocue di certo linguaggio attuale e interroga l’immagine all’interno della sua stessa origine» suggerisce Gabriella Drudi per l’occasione. «In una sorta di rito di reintegrazione questo artista dà inizio al formularsi dell’evento figura per scelta consapevole, che annette immaginari contaminati, crisi emotive, esperienze della mente incanalate nel tessuto malforme di un simbolismo oscuro». […]
Antonello Tolve