
Ettore Panighi
Claudio Spadoni
Anno 2018
Formato 23 x 27 cm
Pagine 176
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ISBN 978-88-99519-57-5
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Dalla formazione al tempo
del dopoguerra
[…] Se ci si è dilungati in questa premessa è perchè di fronte ad un pittore come Ettore Panighi, rimasto sostanzialmente appartato nella sua terra romagnola e anzi in un ambito fondamentalmente ravennate, nonostante le numerose partecipazioni a manifestazioni artistiche nazionali, si stenterebbe a comprendere le ragioni di una scelta che poi è stata anche di altri della sua generazione. La comune scuola cotignolese di Varoli, singolare figura di artista poliedrico, diplomato in contrabbasso, ceramista, pittore, intagliatore, con un’esperienza romana e la partecipazione a rassegne internazionali come il Salone degli Indipendenti di Parigi (ma con maschere in ferro battuto) offre già un’indicazione precisa. Panighi apparteneva ad una generazione che in un’Italia appena uscita dalla guerra s’era trovata a scegliere, dopo una quasi generale infatuazione per il neocubismo picassiano, tra un realismo di irregimentazione guttusiana e le diverse vie dell’arte europea aperte dalle avanguardie storiche. La rimozione di quanto si riteneva espressione del ventennio, facendo letteralmente, come si dice, d’ogni erba un fascio, non fu comunque così generalizzata, soprattutto nella provincia meno in contatto con centri guida quali Roma, Milano, Venezia, Torino. Vero è che in Romagna se neppure il ‘Novecento’ sarfattiano, come si diceva, aveva trovato terreno fertile, a parte il caso Salietti, ravennate d’origine ma formatosi a Milano e divenuto segretario del movimento, restavano, magari, dei valori ideali comuni. Detto in breve, il culto del mestiere, la fedeltà alla tradizione sia pur diversamente intesa, e un’istintiva diffidenza per quanto fosse in odore di trasgressione. In ogni caso, nel dopoguerra, in un breve volgere di tempo l’oscura marea dell’Informale, dall’Europa agli USA, avrebbe messo fuori gioco la querelle insorta fra astrattisti e realisti, spianando poi la strada alle cosiddette neoavanguardie che spazzarono via lo stesso Informale ormai svuotato del suo fondo drammatico e diffuso in accademia nelle sue versioni materiche, gestuali, segniche. Ne scrisse causticamente un Roberto Longhi ancora per poco sulla breccia come critico: “questo ultimo ‘otium’ moderno che è l’estetismo dell’angoscia.” Una stilettata ad Arcangeli, allievo quanto mai coinvolto nella temperie informale, avventuratosi su una via “fuori dalla storia dell’arte”, come aveva sentenziato il ‘maestro’. […]Claudio Spadoni