Ho fiducia in te

Domenico Settevendemie

Anno 2016
Formato 14,8 x 21 cm
Pagine 72
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ISBN 978-88-99519-17-9

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Uno scultore, la propria opera e la materia di cui è fatta, la pianura, un feticcio, sono i protagonisti di questo libro che non ha storie da raccontare. È, piuttosto, il resoconto di un’esperienza sensoriale e del suo stretto radicamento con il territorio sul quale essa si innesta.

Gli artisti di questo sono capaci, di stabilire un rapporto con la materia come fosse quello di un’autentica filiazione, di un’adesione fedele alla bussola della vita senza però esservi rassegnati o rimanerne invischiati nei suoi aspetti più beceri. Lo scultore non fa eccezione e ne è forse l’interprete più radicale, sentendo su di sé il peso di questa estrazione forzata della materia dal suo grembo originario, la responsabilità di farla propria con il compito di riportarla a nuova e diversa vita per poi staccarsene ancora una volta. Per lo scultore, l’esilio della materia (prima e dopo che diventi opera) non è un semplice accadimento necessario per i propri fini, e neppure un capriccio mentale, è proprio il nesso fondamentale tra esistenza e arte, è ciò che porta la distanza a farsi rinnovazione, la separazione a tradursi in movimento vitale.

Custodita e allevata come un corpo vivo che reclama il suo sviluppo, la materia è dallo scultore anche abitata come una patria o un destino cui si appartiene per discendenza ed elezione assieme. La pietra scolpita riporta alla memoria la natalità dello spazio che accoglie l’individuo, in cui trovano ospitalità l’eco del passato, il miraggio del futuro, il respiro del presente, i luoghi ideali, quelli fisici, il territorio, la pianura come è nel nostro caso.

E non è un caso che sia proprio la pianura uno degli interpreti di questo libretto anomalo. Se infatti l’opera è lo stato sensibile dell’artista perennemente oscillante tra realtà e sogno, questa non può che poggiare come una sporgenza celeste su di un luogo fisico (la pianura) privo di barriere, in cui il reale e il sogno riescono a congiungersi liberamente per condurci in lontananze remote. L’opera d’arte può cominciare la sua corsa in solitaria per le ampiezze terrene verso tangenze trascendenti e farsi precorritrice di senso, anticipatrice di significati ancora sconosciuti, essere la sonda lanciata dall’uomo nel futuro per consentirgli la vista oltre l’orizzonte.

Ma prima, lo scultore le rivolge un ultimo saluto e poche, accorate raccomandazioni, esattamente come un padre fa con il figlio che lascia per sempre la famiglia. Parole che sono, per entrambi, il compendio d’esperienze compiute e ancora da compiersi. E dopo gli addii cosa resta sul terreno? Mentre l’opera adempie al suo compito di esplorazione dell’ignoto, allo scultore non rimane che la memoria di questo dispositivo di conoscenza su cui ha il merito di averlo costruito.

L’opera è un corpo in movimento, invece l’arte è immobile, tramandandosi per concetti. Serve un simbolo che rappresenti in modo concreto, tangibile, visibile, la capacità dell’uomo di produrre il proprio mondo visionario e al contempo ne riveli le origini, perché il prodotto dell’intelletto umano pur assumendo un’autonomia propria non può mai prescindere dal contesto nel quale si è formato. Un simbolo evidente, che ricomponga l’avvenuta frattura della materia con la natura da cui è stata strappata. Un feticcio che confermi lo spostamento semantico della materia dal suo ambiente terreno a uno evocativo quando si fa opera d’arte. E che dia il suggello creativo a questa non-storia, altrimenti fagocitata nel tritatutto della mera cronaca.

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