
Premio Maretti 2013
Raffaele Gavarro
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“Che senso ha la competizione nel mondo delle arti? E chi è chiamato a giudicare le opere e gli artisti in gara, in quale modo lo fa? Sulla base di quali regole condivise? Fa riferimento a quelle di tipo estetico? O a quelle più ampiamente legate alle filosofie dell’arte? Oppure sceglie in base a un qualche tipo di sequenzialità storica, o di analisi socioantropologica? E se invece decidesse di affidarsi solo alle logiche di una semplice collocazione, o collocabilità, dell’opera e dell’artista nel sistema dell’arte nazionale e internazionale? Quale scelta risulta corretta, e quale no?
A proposito di questi argomenti c’è stata un’interessante riflessione fatta da Luca Bertolo – artista nato a Milano nel 1968 e non di meno, appunto, fine intellettuale – pubblicata da “Exibart” in due tranche nel dicembre del 2012. Il suo punto di vista non è molto differente dal mio. Il giudizio sopravvive comunque, nonostante l’impoverimento delle qualità critiche che lo sostengono, proprio perché in definitiva a tutti è riconosciuto oggi il diritto di darne uno.
Anche perché non dovendolo appunto argomentare in modo analitico, la questione si risolve piuttosto facilmente limitandosi alla coniugazione del sempre più improprio, nelle arti visive, verbo curare. L’effetto nefasto di questo impoverimento, che è davvero sotto gli occhi di tutti, non è stato privo di conseguenze per l’arte in generale e non tanto per un suo singolo settore professionale. Un altro artista – strano, non trovate? – e anche lui raffinato intellettuale, Roberto Ago (Roma, 1972), sempre dalle colonne di “Exibart”, l’8 febbraio del 2013, ha fatto qualche altra riflessione in questo senso, rivolgendo domande acute, nel senso anche di puntute e fastidiose, ai responsabili di uno dei premi storici del nostro paese. Anche qui la mia opinione non si discosta molto dalla sua.
Non posso dire che le due riflessioni non abbiano avuto in generale una buona attenzione. Anche se mi attendevo che smuovessero maggiormente coscienze e dibattito nel settore curatoriale, e anche in quello ormai ridottissimo della critica. Invece, e in fondo non tanto stranamente, le questioni sollevate hanno avuto grande attenzione e diffusione tra gli artisti, e non tanto perché le riflessioni erano state promosse da due colleghi, quanto perché chi subisce le nefaste sopradette, sono proprio loro in primis.
Veniamo così al Premio Maretti, a cui tra l’altro nella precedente edizione ha partecipato anche il citato Roberto Ago, invitato da Lorenzo Bruni. Mi manca del tutto la faccia di bronzo di dire che date le premesse fatte, e visto che è un premio che ho avuto la sorte di costruire praticamente da zero, qui siamo ben lontani dalle negative problematiche sopra accennate.
La verità è che ho cercato di costruire una struttura che evitasse di perpetuare i soliti vizi del sistema nazionale. Non è detto che ci sia riuscito. Comunque sia, come tutti sanno al Premio Maretti possono partecipare solo artisti dai trentacinque anni a salire. Sono invitati da cinque curatori che sono a tutti gli effetti in gara con gli artisti che hanno selezionato e invitato, perché il premio che verrà attribuito sarà condiviso da entrambi, artista e curatore. Tra l’altro il premio è conferito in conseguenza anche al progetto curatoriale che si concretizza nella scelta degli artisti e nelle motivazioni che vengono dichiarate nel testo. Del resto gli artisti ne condividono a loro volta, come accade sempre quando si accetta di partecipare ad una mostra collettiva, la responsabilità.
In questa dinamica di multipla e partecipata responsabilità, sta uno dei significati per me più importanti del Premio Maretti come luogo di analisi e di verifica delle dinamiche di relazione e di forte mutualità tra artisti e curatori. Dove questi ultimi hanno una chiara responsabilità critica, che si esercita nella scelta e nella motivazione e da cui appunto dipende in parte la stessa vittoria finale. È la prima fase di giudizio, a cui però ribadisco che hanno contribuito sostanzialmente anche gli artisti, accettando la collocazione del proprio lavoro nel contesto che ha creato il curatore e sul quale non è raro che abbiano dato contributi diretti”.
Raffaele Gavarro